Arco voltaico |
Circuito oscillante |
Per generare l’arco elettrico tra i due carboni, collegati ai poli di un generatore a corrente continua, basta mettere a contatto le loro due punte. Poiché le superfici di contatto presentano microscopiche asperità, il contatto dei carboni si verifica solo attraverso piccolissime aree: in queste zone, pertanto, si raggiungono elevati valori della densità di corrente e dell’intensità del campo elettrico. Successivamente le punte si distaccano tra loro, piano piano, e, di conseguenza, si riducono ancora le zone di contatto, esaltando ancora di più i valori della densità di corrente e dell’intensità del campo elettrico vicino al catodo e all’anodo: il risultato, a distacco completato delle due punte, è una forte emissione di elettroni da parte del catodo, sia perché gli alti valori della densità di corrente hanno surriscaldato la punta, innalzando notevolmente la temperatura (effetto termoelettronico), sia perché gli alti valori dell’intensità del campo elettrico consentono di strappare elettroni (effetto di campo).
Gli elettroni estratti ionizzano, a loro volta, gli atomi del gas in cui sono immersi gli elettrodi (aria o altro): elettroni, ioni positivi e negativi si dirigono verso gli elettrodi di segno opposto. La ionizzazione cresce come in una reazione a catena non illimitata, perché alla fine, per un effetto di saturazione, si raggiunge una fase di equilibrio, che costituisce la configurazione finale dell’arco generato.
Il carbone negativo termina con una punta molto luminosa, la cui temperatura è di circa 2700° C; il carbone positivo, bombardato dagli elettroni emessi dal catodo, presenta la punta incavata come un cratere la cui temperatura è di circa 3500° C; dal fondo di questo cratere viene emessa la massima luminosità e la brillanza del fondo raggiunge il valore di 160.000.000 candele/mq.
La tensione minima per alimentare l’arco è di circa 45 V. Questo valore consente la coesistenza dei due fenomeni, effetto termoelettronico ed effetto di campo, i quali, a loro volta, sostentano l’arco con una tensione molto più piccola di quella della scintilla (poche decine di volt), ma con un’intensità di corrente molto più grande (decine di ampere): ciò richiede una sorgente di elettricità atta a tale prestazione.
Quando si realizza il circuito dell’arco voltaico è necessario inserire una resistenza zavorra per stabilizzarne il funzionamento. Infatti la caratteristica dell’arco, cioè la curva che determina l’andamento della tensione in funzione della corrente, è negativa: ad un aumento della tensione corrisponde una diminuzione della corrente. Ciò è dovuto al fatto che un aumento della corrente innalza la temperatura del circuito e, in particolare, quella degli elettrodi: il catodo emette più elettroni, in modo che la tensione necessaria per l’emissione diminuisce.
Un circuito che contiene un componente a caratteristica negativa non deve essere collegato direttamente ai poli di un generatore, perché non si potrebbe instaurare in esso alcun regime stabile. Occorre introdurre un componente a caratteristica positiva, che obbedisce, cioè, alla legge di Ohm, e quindi una classica resistenza, in maniera tale che, per intensità di corrente sufficienti, la caratteristica risultante del circuito risulti positiva.
Per quanto riguarda altre particolarità è da sottolineare che l’intensità di corrente aumenta con l’aumentare del diametro dei carboni e che la tensione aumenta con l’aumentare della distanza tra le punte dei carboni.
Poiché il carbone positivo è soggetto al bombardamento degli elettroni emessi dal catodo, il suo consumo avviene più rapidamente di quello negativo; a ciò si rimedia, parzialmente, realizzando il primo con un diametro maggiore del secondo.
Durante il funzionamento progredisce l’usura dei carboni e il loro consumo fa aumentare la distanza tra le punte, causando una diminuzione dell’intensità di corrente e quindi lo spegnimento dell’arco. Proprio queste diminuzioni di corrente, che si manifestano durante il consumo, sono state utilizzate per la realizzazione di un regolatore automatico formato da bobine, le quali, azionate proprio da queste diminuzioni di corrente, aspirano più o meno dei nuclei ferromagnetici, i quali, azionando appositi congegni, consentono un movimento dei carboni sincrono con il loro consumo, mantenendo così invariata la distanza tra le punte.
Le bacchette di carbone si ottengono dal carbone di storta o da altro carbone puro in polvere, con cui si forma una pasta mediante un eccipiente, che è sciroppo di zucchero; si modellano le bacchette, che poi si calcinano in assenza di aria. Incorporando lungo l’asse del carbone positivo uno stoppino formato da una miscela di grafite, di silicato di sodio e di sali di alcuni metalli (F, B, Ca, Mg, Fe, Cr, Ti, ...), si può rendere l’arco più lungo e luminoso come una fiamma.
Quando si vuole ottenere una grande luminosità (arco intensivo) si impiegano carboni speciali, il cui stoppino contiene sali di terre rare, animati da rotazione continua: la densità di corrente aumenta moltissimo e la luminosità arriva fino a 1.000.000.000 candele/mq.
L’arco voltaico può essere alimentato anche con corrente alternata con due elettrodi identici: il suo rendimento è allora minore che in corrente continua, ma il consumo è uguale per entrambi i carboni.
La luce emessa da un arco voltaico è ricchissima di raggi ultravioletti e splendente come il sole, a tal punto da richiedere per il suo impiego globi diffusori smerigliati, o meglio opalizzati, per abbassarne il rendimento.
Oggi l’uso dell’arco è molto limitato, essendo stato sostituito dalle lampade a xenon e da quelle a vapore di mercurio; in passato è stato molto utilizzato per le lampade di proiezione cinematografica, per grandi riflettori marittimi e militari, per fari, per certi forni, per apparecchi di saldatura ed anche per sostenere reazioni endotermiche.
L’arco con elettrodi di carbone fu realizzato per la prima volta nel 1803 dall’inglese Sir Humphry Davy (1778-1829), che adoperò una pila colossale di 2.000 elementi e, in onore del grande scienziato italiano Alessandro Volta, lo chiamò arco voltaico.
L’invenzione fu successivamente perfezionata dal fisico e ingegnere elettrotecnico inglese William Du Bois Duddell (1872-1917), il quale fu anche incaricato dall’amministrazione di Londra di eliminare un fastidioso ronzio emesso dalle lampade che illuminavano le strade cittadine. Duddell non risolse il problema, ma scoprì un fenomeno singolare: collegando l’arco a un circuito formato da una bobina e da un condensatore, notò con sorpresa che, variando il valore dell’induttanza e della capacità e della tensione di alimentazione, l’arco emetteva delle note musicali: era la prima musica elettronica!
Oggi naturalmente possiamo spiegare il fenomeno: variando opportunamente i valori delle grandezze prima indicate, si generano delle oscillazioni elettriche, le quali, se di frequenza prossima a quella percepibile dall’orecchio umano, mettono in risonanza la colonna d’aria che circonda l’arco; quest’ultima, allora, comincia a vibrare, emettendo una nota musicale della stessa frequenza: proprio come la canna di un organo.
Oltre agli impieghi già menzionati, l’arco con elettrodi di carbone è stato utilizzato con successo nel campo delle telecomunicazioni, sia in radiotelegrafia (trasmissione di segnali Morse), sia in radiotelefonia (trasmissione della voce).
A differenza dei trasmettitori a scintilla, che possono generare soltanto treni d’onda smorzati e distanziati tra loro, i trasmettitori ad arco sono in grado di produrre oscillazioni persistenti, dette anche continue, cioè di ampiezza costante e non più decrescente come i primi.
Il vantaggio è enorme, perché, a parità di potenza di ciascuno dei due tipi di trasmettitore, l’energia irraggiata dall’antenna di un apparato ad arco voltaico è di gran lunga maggiore di quella irraggiata dall’antenna di un apparato a scintilla. Ciò permette di aumentare di molto la portata di trasmissione.
Lo stesso Marconi, rievocando in un discorso del 1932 il collegamento transoceanico del 12 dicembre 1901 tra Poldhu e San Giovanni di Terranova, annoverò tra le cause del rischio dell’insuccesso dell’impresa anche la non conoscenza, a quell’epoca, delle onde continue.
Proprio perché con l’arco voltaico si generano oscillazioni continue, riesce abbastanza facile modulare la corrente dell’arco stesso con un microfono, irraggiando così un’onda modulata, la quale, captata dal ricevitore, è in grado di riprodurre nel ricevitore una corrente modulata dello stesso tipo e quindi la voce umana.
Allo scopo furono escogitati, già ai primi del novecento, microfoni particolari e molto sofisticati; degno di memoria è il microfono ad acqua o microfono idraulico, ideato nel 1909 dal professor Quirino Majorana. Esso è basato sul principio per cui una vena liquida, che cade verticalmente da un forellino praticato sul fondo del recipiente che lo contiene, modifica la sua forma a seconda della pressione che viene esercitata sul liquido da una membrana elastica, messa in vibrazione dalle onde sonore. La membrana è posizionata su una piccola zona della parete laterale del recipiente. La vena liquida, cadendo, passa – appena, appena – tra due elettrodi molto vicini e situati al disotto di essa. La vena, costituita da una soluzione di acqua distillata e acido solforico, quando passa attraverso i due elettrodi, determina nel circuito degli stessi una variazione di resistenza in perfetta sintonia con le vibrazioni della membrana. Nel 1912 il professor Vanni modificò, perfezionandolo, il microfono Maiorana.
E’ noto che si possono mantenere delle vibrazioni meccaniche fornendo periodicamente l’energia necessaria per compensare le perdite dovute agli attriti. Nel campo elettrico la maniera più semplice e usata per generare onde persistenti è basata sull’utilizzo di una resistenza negativa, cioè di un componente nel quale una variazione di intensità di corrente produce una proporzionale variazione di tensione, ma di segno opposto.
In termini rigorosamente matematici, per una resistenza negativa, la curva caratteristica I=f(V) ha il valore della derivata dI/dV, sempre negativo: questo sta a significare che ad ogni aumento infinitesimo della corrente, dI positivo, corrisponde sempre una diminuzione infinitesima della tensione, dV negativo. Se in un piano cartesiano si riportano sull’asse delle ascisse i valori della tensione e su quello delle ordinate i corrispondenti valori della corrente, il grafico, I=f(V) è rappresentato da un curva discendente da I verso V con la concavità verso l’alto.
Orbene, come già detto in precedenza, l’arco voltaico si comporta esattamente come una resistenza negativa: proprio questa sua proprietà permette di utilizzarlo per generare onde denominate persistenti o continue, come preferito dallo stesso Marconi.
Infatti, se un generatore di corrente continua alimenta l’arco voltaico e se ai capi dello stesso arco si deriva un circuito oscillante, costituito da un condensatore e da una bobina, questo circuito, L-C, ha un tratto costituito proprio dall’arco; questo tratto viene denominato dispositivo di persistenza ed è in pratica una resistenza negativa.
Quando il funzionamento del circuito oscillante sovrappone alla tensione V dell’arco la tensione oscillante del tipo alternato v, la corrente I attraverso l’arco viene modificata e diventa I+i, essendo i la corrente oscillante, anch’essa del tipo alternato. Affinché la i possa persistere è necessario che, quando V diminuisce, I aumenti; funzione che l’arco può svolgere alla perfezione, essendo il suo comportamento proprio quello di una resistenza negativa. Pertanto le oscillazioni del circuito L-C non risultano più smorzate, ma persistenti, in quanto il generatore compensa la perdita di tensione con l’aumento di corrente.
Nel 1902 l’ingegnere danese Valdemar Poulsen (1869-1942) realizzò il primo trasmettitore ad arco voltaico della potenza di 10 kW. In essa l’arco, di grande potenza, scoccava tra un elettrodo positivo (anodo) di rame, internamente cavo e raffreddato con circolazione d’acqua, e un elettrodo negativo (catodo) di carbone purissimo, in continua rotazione intorno al proprio asse allo scopo di mantenere l’arco quanto più uniforme possibile. I due elettrodi non si trovavano più nell’aria ma in un’apposita custodia contenente idrogeno o un idrocarburo, anch’essa raffreddata con circolazione d’acqua. Inoltre l’arco era presente tra le espansioni polari di un potente elettromagnete, onde evitare sfiammature e tenere lo stesso arco compresso.
Poiché l’arco, ovviamente, non poteva essere acceso e spento in modo da seguire la manipolazione del tasto, come invece avveniva negli apparati a scintilla, esso era sempre in funzione e un tasto provvedeva a mettere in corto circuito alcune spire del primario del Jigger: questo determinava una variazione della lunghezza d’onda. Le lunghezze d’onda, pertanto, erano due: quella di lavoro, corrispondente al tasto abbassato, e quella di riposo, corrispondente al tasto alzato.
Gli apparecchi riceventi erano accordati sull’onda di lavoro. Con il tempo ci si accorse che l’onda di lavoro generava problemi d’interferenza e per questo motivo s’introdusse un sistema che permetteva, a tasto abbassato, di dirottare la radiofrequenza di riposo non all’antenna, ma su un carico fittizio per la sua dissipazione.
Il primo a comprendere l’importanza della scoperta e ad imprimere un decisivo sviluppo al “Poulsen system” fu Cyril Frank Elwell (1884-1963), studente all’Università di Stanford, il quale convinse l'inventore a concedergli la licenza dei suoi brevetti negli Stati Uniti. Elwell trascorse anche alcuni mesi in Europa, compiendo numerosi esperimenti con Poulsen.
Tornato negli Stati Uniti, Elwell fondò, nel 1909, la “Poulsen Wireless Telephone and Telegraph Company”, l’anno dopo la “Radio Poulsen Wireless Corporation of Arizona” e, più tardi, la Federal Telegraph Company”. La sede di queste società era di fatto a San Francisco e le trasmissioni avvenivano da un sito sulla 48th Avenue, tra Noriega street ed Ortega street, di fronte all’Oceano Pacifico.
Poulsen ed Elwell cominciarono subito la sperimentazione, che fornì ottimi risultati, tanto da convincere il finanziere Thompson di San Francisco a mettere a disposizione il capitale necessario per l’installazione di stazioni ricetrasmittenti commerciali per collegamenti a grande distanza.
La prima stazione trasmittente ad arco fu costruita a mezzo miglio dal Golden Gate, aveva una potenza di 10 kW ed era alimentata da una dinamo che forniva una tensione di 600V ed un’intensità di corrente di circa 16 A; il traliccio dell’antenna era in legno ed alto 99 metri. La seconda stazione aveva la potenza di 30 kW ed era alimentata con una dinamo che forniva una tensione di 600 V ed una corrente di 50 A.
La Marina Militare degli Stati Uniti, constatata l’efficienza del sistema di trasmissione, richiese con grande insistenza che le navi da battaglia fossero equipaggiate, nel più breve tempo possibile, con stazioni ad arco Poulsen di grande potenza. Così furono allestiti trasmettitori della potenza di 50, 100, 150, 250 e 500 kW. Per ultima fu costruita una stazione trasmittente ad arco della potenza di 1.000 kW, che, all’inizio della prima guerra mondiale, fu spedita in Francia a Bordeaux, sulla costa dell’Oceano Atlantico, e fu adibita a stazione radiotelegrafica per lo scambio di messaggi di operazioni belliche. Questa potentissima stazione aveva l’elettrodo di carbone del diametro di 20 centimetri e assorbiva una corrente di circa 1700 A.
Numerose stazioni ad arco Poulsen furono costruite in America e in Europa. Lo stesso Marconi costruì due potenti stazioni ad arco: una a Clifden, in Irlanda, in onore della madre irlandese di nascita, e la seconda a Coltano, in Italia, su richiesta del governo italiano, per il collegamento stabile con le colonie dell’Africa Settentrionale.
Bibliografia
Pierre Fleury, Jean-Paul Mathieu, Trattato di fisica generale e sperimentale. Volume 7, Correnti variabili. Onde elettromagnetiche, Zanichelli Editore, 1963
D. E. Ravalico, Il radiolibro, Hoepli Editore, 1954.
In questo interessante articolo non si parla dell'uso dell'arco voltaico come fonditrice per l'acciaio inossidabile ad uso odontotecnico. Io stesso per molti anni con nella mano sinistra impugnavo il dispositico con carboni accesi e nell'altra la fionda con il metallo fuso dalla fiamma dell'arco che appena liquido facendo girare la fionda in modo da creare una forza centrifuga il metallo licquido veniva così iniettato nello stampo in materiale refrattario. Mi sono limitato ad una spiegazione molto riassunta.
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